Spoleto7film: “Diamanti” di Ferzan Özpetek (Andrea Grallinu)
In queste ultime settimane, precisamente dal 19 Dicembre, i botteghini di tutta Italia fremono d’incassi e biglietti staccati per un film, udite udite, completamente Italiano. Sulla soglia dei 13 milioni di euro, Ferzan Özpetek proietta in sala la sua ultima pellicola, “Diamanti”, rigogliosa di ben diciotto donne all’interno del cast (Luisa Ranieri, Jasmine Trinca, Sara Bosi, Loredana Cannata, Geppi Cucciari, Anna Ferzetti, Aurora Giovinazzo, Nicole Grimaudo, Milena Mancini, Paola Minaccioni, Lunetta Savino, Vanessa Scalera, Carla Signoris, Kasia Smutniak, Mara Venier, Milena Vukotic, Elena Sofia Ricci, Giselda Volodi). La trama corale, tipica nella narrativa del regista, segue le vicende delle donne all’interno della sartoria delle sorelle Alberta e Gabriella Canova (Ranieri e Trinca), specializzata nel confezionare abiti di scena (teatrali e cinematografici). La narrazione metacinematografica vede la trama spezzarsi in due: da una parte la contemporaneità, nella quale lo stesso Özpetek veste i suoi panni, mostrando la lettura del copione di ciò che poi diverrà il film girato; dall’altra il vero e proprio film che ha luogo all’atelier.
Ora, siccome è da molto tempo che vorrei darvi il mio punto di vista su questo film e dato che ho preferito dare la precedenza alla stesura di commenti riguardanti altre pellicole con meno visibilità e successo in sala (dati alla mano), suddividerò il seguente testo in due parti: una che si tiene sul generale e l’altra nella quale ci addentreremo più nel particolare. Vorrei chiedervi uno sforzo maggiore (forse) nel comprendere le considerazioni che trarrò riguardo il film che stiamo per commentare, poiché la mia si dimostra una voce fuori dal coro di applausi e scroscii che questo titolo sembrerebbe aver generato. Non per questo la vostra opinione non ha diritto di contrastare la mia, tuttavia i miei spunti di riflessione si rifanno a un ritratto di questi tempi moderni (soprattutto in Italia) e a ciò che a mio avviso potrebbe risultare tanto preoccupante quanto sorprendente. Come sempre, vi invito a dar forma alle vostre personali considerazioni.
Il film si apre con la lettura del copione che vede sedute al tavolo le nostre diciotto attrici e il regista. Già da qui, la plasticità della scena è evidente: una fotografia scarna, simile a quella delle fiction Rai in onda in prima serata, e scambi di sguardi tra i personaggi che appaiono recitati, costruiti, cosa che non dovrebbe accadere nella messa in scena di quello che dovrebbe sembrare un dialogo genuino. Raccontarvi la trama di qui in poi risulta semplice: il film, come sopracitato, si svilupperà all’interno dell’atelier delle sorelle Canova, le quali riceveranno una proposta allettante e di rilevanza per le loro carriere, ossia collaborare con un famosissimo regista (Stefano Accorsi) al fianco di un’importante costumista, entrambi premi Oscar, di nome Bianca Vega (Vanessa Scalera). Da qui, la conoscenza dei numerosi personaggi che popoleranno la pellicola: Alberta e Gabriella, la giovane nuova arrivata Giuseppina (Sara Bosi), personaggio appena abbozzato; Fausta (Geppi Cucciari), la cui unica caratteristica è voler a tutti i costi trovare un giovane uomo da sedurre in modo inadeguato e morboso; Paolina (Anna Ferzetti); Carlotta (Nicole Grimaudo), la tingitrice che vedremo apparire fugacemente; Nicoletta (Milena Mancini), la cui storia si rivelerà essere l’unica per la quale ho nutrito un briciolo d’interesse se non fosse per la risoluzione finale; Nina (Paola Minaccioni); Eleonora (Lunetta Savino), che ricopre più o meno lo stesso ruolo di Fausta; l’adolescente Beatrice (Aurora Giovinazzo), nipote di Eleonora; e Silvana (Mara Venier), la cuoca, che in quanto donna più anziana dovrebbe rappresentare una sorta di saggia ancora sicura. È il momento quindi di sviluppare le mie perplessità a riguardo dell’intero film. Innanzitutto, la pellicola si presenta come una specie di manifesto femminista che di femminista ha ben poco, se non la presenza di troppi personaggi femminili che subiscono in modo evidente la durata del film (2 ore e 15 minuti), troppo breve per la progressione morale e caratteriale dei personaggi e per la risoluzione delle loro storie. Se il femminismo si cela in questo, le mie preoccupazioni hanno una muraglia su cui ergersi. In anni di abilimento riguardo il comportamento degli uomini nei confronti delle donne, non mi spiego come sia possibile che gli atteggiamenti attuati nello specifico dal personaggio della Cucciari sui ragazzi che si aggirano inevitabilmente per l’atelier siano tollerabili.
Continui ammiccamenti spinti, commenti inopportuni sui loro fisici o riguardo i loro lati b per essere il più eleganti possibili, cosa che parrebbe essere il suo unico tratto caratteriale nell’intera durata della visione. Se una situazione del genere fosse stata riportata sui grandi schermi con un’inversione dei sessi, a quest’ora Özpetek starebbe fronteggiando una marea di denunce da parte di donne furibonde per gli atti osceni visionati nel film. Questo comportamento, dal mio punto di vista, appare del tutto inaccettabile. Stronco quindi gli omaggi e le elevazioni attribuite a questa pellicola, che di femminista non ha niente. Una proiezione dei peggiori comportamenti subiti dal genere femminile, inflitti da loro stesse. O sarà lo stesso Özpetek un visionario che fatico a comprendere? Ne dubito fortemente.
C’è da dire che purtroppo l’Italia si cinge d’una bella e sfarzosa corona d’ipocrisia quando si tratta questo genere di argomenti, nonostante si militino cambiamenti sociali, riconsiderazioni per il ruolo della donna, ma soprattutto parità, poichè è lì che risiede il vero e proprio problema, nella parità sociale, argomento fondante dell’attivismo femminista che in questo caso sembrerebbero aver dimenticato tutti. Nella pellicola viene inoltre trattato il tema della violenza domestica che, purtroppo, nella coerenza delle trame che non avranno uno svolgimento né tantomeno un finale accettabile, viene “risolto” in modo superficiale, becero e insulso a metà film senza poi venir più preso in considerazione. Troncato con una nonchalance per la quale io non avevo davvero più parole, seppur fino ad allora mi avesse causato interesse. Doloroso vedere le sorti del personaggio concludersi in questo modo. Che grandissimo problema quello della scrittura di queste protagoniste che non toccano mai davvero il cuore. Alberta, il personaggio della Ranieri, dovrebbe rappresentare l’archetipo di donna forte, incompresa per via delle sue aspirazioni di successo e amareggiata per una delusione amorosa subita in passato. Peccato che risulti superficiale, fastidiosa in ogni scena, e molte scelte narrative adottate per lei le ho trovate totalmente incomprensibili. Aurora Giovinazzo interpreta un ruolo al quale si vuole dare un’importanza feroce, importanza che non verrà mai valorizzata a dovere. Di fatto, la sua storia dovrebbe rappresentare un punto di svolta: fuggita da una protesta dopo esser stata aggredita dalla brutalità dei poliziotti presenti alla manifestazione, la ragazza si rifugia nell’atelier in cui lavora per l’appunto la zia Eleonora (la cui storia ruota attorno allo stare segretamente con l’affascinante segretario Ennio), per poi scoprire casualmente una vocazione nella sartoria.
Ma anche qui non si centra mai il punto. Anche il personaggio di Nina avrebbe un pretesto interessante, le sue difficoltà con un figlio adolescente dal comportamento particolare. Eppure torniamo al punto di partenza: troppo poco minutaggio d’apparizione per plasmarne bene le vicende. Non considerando per giunta la basilare predizione della trama che si pone a completa disposizione da subito: fin dall’inizio si capisce dove andrà a parare ogni filo narrativo, ogni personaggio, tanto che ormai giunti a metà film, non ci si stupisce nemmeno del finale. Una pomposità registica incomprensibile, alternando per l’appunto la storia fallace con le entrate in scena del regista e del personaggio di Elena Sofia Ricci che incarna una sorta di raffigurazione umana di ciò che è il cinema, attribuendo alla settima arte un corpo. In quei momenti, soprattutto nell’atto finale, mi è parso di notare una perdita del controllo della gestione dei tempi, che si fanno inspiegabilmente troppo lenti. Qualcosa che, se sviluppato diversamente, sarebbe comunque potuto essere interessante, ma che risulta fastidioso nel suo imporsi in maniera così esuberante. Se non altro, ho trovato interessante la figura di Gabriella e la sua storia, una donna avvolta nel mistero, i cui comportamenti ci appaiono come preludio di una realtà che ci verrà svelata più avanti (questa volta sul serio), dimostrandosi probabilmente il personaggio meglio scritto dell’intero girato. Ma la sospensione dell’incredulità raggiunge dei limiti non consentiti, i dialoghi sono completamente innaturali, non v’è niente di sincero nelle battute che si scambiano questi personaggi tanto macchiettistici. Diciamoci la verità, nessuno al mondo avvierebbe delle conversazioni del genere in un qualsiasi contesto sociale.
Purtroppo, tutto ciò che può esser detto senza spoiler si conclude qui. Lo scendere maggiormente in profondità ci aiuterà a capire meglio alcune questioni piuttosto controverse della pellicola. Detto questo, se non avete ancora recuperato il film, potete fare un breve pit stop e riprendere la lettura da qui una volta che avrete guardato la pellicola.
Nicoletta, interpretata da una straordinaria Milena Mancini, è un personaggio che fin dai primi istanti cattura l’attenzione con la sua agitazione palpabile. Il suo rientro a casa è scandito da un’ossessiva attenzione all’orologio, ogni movimento tradisce un’inquietudine crescente accentuata quando si fa cenno al marito. Il quadro familiare si rivela ben presto drammatico: il marito, portato in scena con intensità da Vinicio Marchioni, è un uomo violento, abituato ad alzare le mani e a scagliarsi contro Nicoletta con minacce agghiaccianti. Tra queste, la più terribile è l’idea di buttarla in un pozzo profondo che affluisce al Tevere, proprio nel giardino di casa, rendendo l’ambiente domestico un luogo di costante tensione e paura. Ogni momento che la vede presente in scena innalza la pellicola e devo confessare fossero gli unici momenti nei quali non sentissi la pesantezza data dalla “delusione” del film. Ma come ho già accennato, la sua risoluzione risulta drasticamente tronca: a metà film, Nicoletta ci fa intendere di aver rovesciato le sorti dell’abuso, uccidendo lei stessa il marito nella stessa modalità con la quale Bruno (nome dell’uomo) aveva più volte minacciato la moglie. La cosa avviene talmente velocemente che non si riesce nemmeno a metabolizzare. Per di più, eseguendo questa scelta narrativa, il personaggio di Nicoletta da quel momento in poi non avrà più rilevanza di alcun tipo. La questione si azzera bruscamente e finisce. Capirete il mio sbigottimento. Peccato, poichè i momenti che vedono coinvolti questi due personaggi risultano davvero ottimi in quanto a messa in scena e recitazione. La Silvana della Venier? Ci vengono dedicate pochissime battute esplicative di ciò che fu la sua vita prima di diventare la cuoca della sartoria. Ci viene detto che fosse una ballerina, che lavorava in televisione, ma che per via della brusca separazione con un uomo dovette concludere per sempre la sua carriera da showgirl. Anche in questo caso, questo è tutto ciò che sapremo del personaggio. Si cerca di creare una sorta di dualismo tra lei e il piccolo figlioletto di Paolina, che soggiornerà segretamente in atelier per l’impossibilità della madre di poterlo lasciare con qualcuno nei pomeriggi. L’ambivalenza delle due età dei personaggi, l’incontro tra il giovane e l’anziano, non avrà alcuna rilevanza nel proseguimento della trama. Gabriella, un personaggio che ho fortemente apprezzato e forse l’unico con una narrazione completa a 360 gradi, si rivela essere ancora in lutto per la tragica perdita della figlia, avvenuta cinque anni prima, investita da un’auto mentre attraversava le strisce pedonali. Il suo rapporto col marito e il suo comportamento suscitano un fascino profondo. Il suo sguardo perso, le movenze quasi infantili, bambinesche, aggiungono una complessità unica al suo carattere, rendendolo incredibilmente interessante ai miei occhi. Peccato, invece, per la sorella Alberta, che si dimostra il contrario di una donna forte e matura. Per ragioni che appaiono del tutto sproporzionate (una semplice delusione romantica, se confrontate con un lutto materno) Alberta agisce perlopiù con arroganza e mancanza di tatto. In rare eccezioni, mostra un briciolo di magnanimità, ma per la maggior parte del tempo il suo comportamento è irritante. Durante un confronto verbale con Gabriella, la sua condotta diventa del tutto inaccettabile: ciò che dice potrebbe essere espresso in mille altri modi, ma lei sceglie di agire come una prepotente, pretendendo di gestire il dolore e le sofferenze della sorella, arrivando a trattarla come cartastraccia. La stessa arroganza emerge nel rapporto con le sue sarte, piegandosi invece completamente ai voleri di Bianca Vega pur di raggiungere i propri scopi. Questa ambiguità caratteriale rende Alberta un personaggio difficile da empatizzare, a differenza di Gabriella, la cui profondità e fragilità colpiscono al cuore. La risoluzione finale era del tutto prevedibile: durante il pranzo di celebrazione per la fine dei lavori, le sarte si uniscono e, all’ultimo momento, confezionano l’abito più importante, l’unico rimasto incompleto. È una scena già vista in mille varianti, ed è evidente fin dall’inizio che la storia finirà proprio così. Ho per di più sentito un drastico calo del ritmo narrativo verso la fine, nelle sequenze che vedono coinvolto Özpetek nel suo delirio di autocompiacimento registico, che appesantisce ulteriormente la conclusione finale.
Il punto centrale della mia indignazione è questo: com’è possibile che un film del genere abbia riscosso un simile successo nel nostro paese? Viviamo in un’epoca che è il risultato di anni di lotte per la parità dei diritti, eppure ci genuflettiamo davanti a un pseudo-femminismo che dipinge le donne comportarsi nel modo più discutibile possibile e gli uomini come perfetti idioti. Vorrei solo ricordare che nel 2023 veniva proiettato nelle sale “Povere Creature!” di Yorgos Lanthimos. Fino a pochi mesi fa, abbiamo avuto il privilegio di vedere “The Substance” della brillante Coralie Farget. Se “Diamanti” vuole rappresentare il femminismo, mi chiedo sinceramente a quale livello di consapevolezza culturale si trovi il nostro paese.
Andrea Grallinu