Il poeta Gabriele Greco a Spoleto con il libro “Bruciaglie”
Nei giorni fittissimi di appuntamenti del Festival dei Due Mondi si è svolta a Spoleto una importante iniziativa letteraria, nel corso della quale il poeta Gabriele Greco ha presentato la sua raccolta “Bruciaglie” (edizioni peQuod 2022).
Gabriele, toscano di nascita ma residente in Svezia ormai da molti anni, ha trovato nel linguaggio poetico un canale privilegiato per esprimere le sue emozioni, i suoi sentimenti, la sua visione del mondo. Alle sue liriche, spesso brevi, sempre intense, affida la sua ricerca e la sua nostalgia, con echi montaliani e un uso della parola sapiente e moderno.
“Sussurrami / qualcosa / prima di / andartene”.
Gabriele, come ti sei avvicinato alla poesia?
Il mio primo incontro con la poesia risale all’infanzia. Ero molto attratto dalle narrazioni assurde, inesplicabili e misteriose. Mi accorsi ben presto che le parole non erano soltanto delle sequenze sonore con dei significati fissi, ma anche delle entità variabili e sorprendenti, dotate di una grande forza creativa ed immaginifica. Intuii che con le parole si potevano creare o evocare mondi e personaggi nuovi, storie fantastiche prima inesistenti e che andavano al di là di me. Sentivo inoltre che giocando con esse, si rinnovavano suscitando emozioni negli ascoltatori. Credevo che sotto le parole vi fosse nascosto qualcosa di “altro”. Fu proprio grazie alla scoperta di questo “altro”, come una verità a me disvelata, che mi avvicinai alla poesia. Era una sorta di formula magica che poteva replicarsi all’infinito: bastava spremere le parole, giocarci un po’, strapazzarle, ricomporle e qualcosa si otteneva. Quello era il potere orfico della parola, la poesia come stupore, prodigio e soffio vitale, ma non sapevo ancora il suo nome.
Durante le scuole medie, iniziai a scrivere le mie prime poesie influenzato dalle letture di Leopardi, Pascoli, i Crepuscolari, Ungaretti e Montale. Al liceo poi scoprii i poeti latini, i lirici greci, gli Stilnovisti, Dante, Petrarca, Mallarmé, Rimbaud, Verlaine, Baudelaire, Lautréamont, i Surrealisti, Prévert, Pessoa e ricordo che fu un vortice che mi rapì totalmente. Iniziai da allora ad amare tutta la poesia. Leggevo poeti americani, russi, spagnoli, portoghesi, giapponesi, tedeschi, tutti in traduzione e spesso con testo a fronte. E così, grazie alla poesia, nacque pian piano anche il mio interesse per le lingue. All’università, pubblicai le mie prime due raccolte di poesie e continuai con i miei studi di italianistica e di francese, studiando anche l’inglese, lo spagnolo, il portoghese e un po’ di tedesco, perché desideravo leggere il più possibile i testi in lingua originale. Le traduzioni, seppur necessarie, creavano talvolta una strana distanza con il testo, mentre io a quel tempo, e sostanzialmente ancora oggi, concepivo la poesia come un’esperienza totalizzante e assoluta, senza mediazioni.
Nelle tue liriche compare spesso una presenza femminile, fuggevole ma salvifica. Di chi o di cosa si tratta?
Il “tu” femminile che ritorna costantemente nella mia poesia è una complessa e proteiforme figura di presenza-assenza, spesso onirica e allo stesso tempo carnale, diafana ma anche oscura, portatrice di salvezza, di amore, di sensualità, di speranza, ma anche di inganno, di silenzio, di oblio e di disamore. È una creatura polisemica, sfuggente e ambivalente: talora in attesa, muta come una stele arcaica, sulla soglia tra due mondi distanti o guardiana e rivelatrice di un varco o di un attraversamento. Quel “tu” potrebbe racchiudere in sé forse anche l’archetipo del femminile: è colei che appare e scompare, nasce, muore e rinasce, si scinde e si ricompone, perde e ritrova il cammino, aiuta, protegge, accarezza e lascia andare, disseminando dietro di sé una miriade di segni, simboli, luci, colori, lacrime, polveri, sangue e virtù. È un “tu” che viaggia, si annoia, indica la strada, sogna su spiagge deserte all’alba, diviene spuma di mare, filo d’erba, neve, luna, stelle; è colei che dorme o ama nel tepore di stanze ovattate, al riparo dalle inquietudini del quotidiano o in fuga da un dolore. Quel “tu” quindi non rappresenta una figura univoca, riferibile ad una sola donna, ma si tratta bensì di un’accumulazione simbolica stratificata di memorie di varie figure femminili reali o immaginarie, le quali con la loro presenza (o assenza) hanno accompagnato, attraversato e segnato in qualche modo la mia vita di uomo e di poeta.
Le poesie dedicate ai tuoi figli propongono il tema della trasmissione della memoria. Quale significato ha per te?
La memoria è un tema a me molto caro ed essenziale nella mia poesia. Già il titolo Bruciaglie, oltre a definire una scelta di stile, fornisce anche una prima chiave per entrare nella mia poetica, in un mondo cosparso di memorie minimali. Che cosa sono le bruciaglie? Sono soltanto delle misere sterpaglie secche, ma necessarie ad accendere il fuoco, che poi è il fuoco della vita, dell’amore, della memoria, il fuoco sacro della poesia. Credo che la scrittura, la poesia, e più in generale l’arte, siano simbolicamente come delle umili bruciaglie, delle tracce, delle testimonianze del nostro passaggio, dei piccoli segni, coraggiosi (anche se minimi) dell’esserci stati; delle cose da poco, insomma, ma che possono però tutte insieme accendere il fuoco della memoria e quindi della vita oltre di noi. Se la poesia è dunque segno, traccia dell’anima, allora la memoria, alleata della poesia, può tentare di vincere l’oblio, illuminandolo con la propria immensa luce. La poesia diviene così testimonianza di luminosa bellezza contro le tenebre e contro il nulla. E anche se nella vita ci sono stati degli inciampi, delle cadute, dei dolori, dei fallimenti e delle ripartenze, ecco che la poesia resta sempre là a testimoniare tutto questo. La poesia dà voce alla vita essendo essa stessa ragione di vita, in quanto essa sublima il dolore, un dolore che diviene allora necessario alla vita, in quanto fonte di poesia. In fondo non vi è arte, né poesia senza l’esperienza diretta del dolore. Le bruciaglie accendono un fuoco salvifico che purifica e rende degna la nostra vita, pur con le sue imperfezioni. Ecco il perché della dedica dell’intera raccolta ai miei figli: da padre, ho ritenuto importante tentare di trasmettere ai miei figli la testimonianza di ciò che ho amato di più fare nella mia vita, di tramandare loro il mio desiderio più profondo, i miei valori, la traccia della mia scelta di uomo e di poeta. L’augurio è che i miei figli possano vivere la loro vita e i loro sogni con intensità e passione, essendo sempre testimoni di bellezza, di libertà e di poesia.
La natura compare a tratti sullo sfondo, armonica e benevola. È solo una cornice o assume un valore più profondo?
La natura assume nella mia poesia un valore profondamente simbolico. Quando in Bruciaglie appaiono mari, emergono colline, si attraversano boschi o deserti di pietra, si affonda coi piedi nella neve, si cammina su distese gelate o si è immersi in silenziosi notturni in compagnia della luna, queste non sono mai delle cornici o dei semplici elementi cromatici passivi, ma bensì dei teatri miracolosi, trascendenti e attivi, cioè in stretto contatto, quasi simbiotico, con l’io poetico. Da Dante in poi, passando dal Simbolismo al Crepuscolarismo, da Montale fino all’Ermetismo, la natura in poesia ha sempre avuto un’enorme valenza evocativa, trascendente e mistica. Anche nella mia poesia, la natura simboleggia spesso un “altrove” interiore, uno spazio intimo e al tempo stesso lontano ed inesplorato, un luogo non fisico, un abisso al di fuori di ogni tempo. È una natura antropomorfica, talvolta metamorfica, è un luogo primordiale di memorie che rimanda continuamente a qualcosa di magico, di soprannaturale e di incantato.
Perché ha ancora senso scrivere poesie e leggere poesie in un’epoca come la nostra?
Ricollegandomi a quanto detto prima, a proposito della memoria, credo che scrivere, leggere, “fare” poesia oggi sia un atto assolutamente primario, necessario ed essenziale alla nostra vita. La poesia, quando è vera, non dimentichiamolo, è un risveglio, una guarigione e una salvezza. In questa nostra epoca nella quale assistiamo inermi ed impotenti a dei continui assalti alla bellezza e a dei vili attacchi alla vita e alla libertà, in nome del più sfrenato nichilismo, la poesia resta forse l’ultimo antidoto ancora valido da poter opporre. Bisogna coltivarla però, necessita di dedizione, di amore e di coraggio. E se non dovesse bastare? Allora saremmo tutti forse più sperduti e impoveriti, però prima almeno proviamoci. Diamo alla poesia noi stessi, diamole del tempo, lasciamoci sedurre dalla sua bellezza, dalla sua forza e lei saprà ripagarci donandoci tutta la sua eterna freschezza, la sua purezza infinita. Sarà forse come bere la rugiada del primo mattino del mondo.
Lucia Romizzi
Lo conosco è un bravissimo scrittore è una bravissima persona