L’occhio registico delle pellicole in sala dell’ultimo periodo trova spunti interessanti nel trattamento della donna (“Nosferatu” di Eggers, “Maria” di Larrain, “Diamanti” di Özpetek) tramite il personalissimo approccio di ogni regista al puro femminile. ”Emilia Perez”, film di Jacques Audiard disponibile nelle nostre sale cinematografiche dal 9 Gennaio (in programmazione alla Sala Pegasus fino a Mercoledì 22 Gennaio) entra a far parte della lista di titoli volti al racconto “in rosa”.
Trionfa a Cannes 2024 premiando l’intero cast nella categoria “miglior interpretazione femminile” (Karla Sofia Gascon, Zoe Saldaña, Adriana Paz e Selena Gomez) e aggiudicandosi il premio della giuria alla 77esima edizione del Festival. Il regista francese, che di buon grado si sporca le mani e non mette mai in pausa la ricerca e la creazione di film variegati nel genere e nelle tematiche, ci pone di fronte a un freschissimo musical che parla di corpi, di voci, di cambiamenti. Per rendere possibile la lettura del commento che segue a chi ancora non ha visionato la pellicola, verrà suddivisa in due parti: la prima, che si manterrà sul generico, e la seconda, sul particolare.
Ci troviamo in Messico, dove Rita Mora Castro (Zoe Saldaña), un’avvocatessa insoddisfatta della sua carriera, che non riflette le sue vere ambizioni, riceve una telefonata inaspettata. Invitata a un incontro per discutere di una proposta di lavoro, Rita verrà invece rapita e condotta al cospetto di Juan “Manitas” del Monte (Karla Sofia Gascon), uno dei più temuti boss del cartello messicano. Qui, l’uomo espone una richiesta curiosa agli occhi di Rita, ossia trovare un chirurgo disposto a eseguire un intervento di cambio di sesso per poter finalmente diventare ciò che dentro di se ha sempre saputo di essere: una donna. Rita, data l’ingente ricompensa economica, accetta, seppur riluttante. Una volta eseguita la transizione, Manitas diverrà Emilia Perez, e le loro strade si divideranno, ma non per sempre.
Il risultato della pellicola è un vibrante musical, dove il comparto musicale, le coreografie e la resa attoriale del cast si fa carico dell’intero sostentamento del film. I brani sono imperdibili, una miscela di sound reguetton, batterie trap e orchestrazioni, per giunta la struttura dei testi è davvero interessante e la monotonalitá dei temi principali con l’aggiunta di una distorsione quasi robotica della voce (che crea una sorta di dissonanza) si potrebbe ricollegare metaforicamente alla sensazione di oppressione dato dal sesso biologico della protagonista (e la sua conseguente transizione). Peccato però che, oltre a un’ottima regia soprattutto nei momenti musicali, con dei movimenti di macchina intriganti, una buona fotografia, delle fantastiche scenografie (Città del Messico è stata interamente ricostruita in un teatro di posa francese), e un clamoroso makeup della Gascon nei panni di Manitas, i lati positivi trovano qui la loro conclusione.
Una delle problematiche principali della pellicola è di fatto la scrittura: la sceneggiatura non approfondisce nessuno dei molteplici temi trattati, troppa carne al fuoco che ha come risultato una superficialità che demolisce delle ottime e intrigantissime fondamenta per sviluppare un film che sarebbe potuto diventare una gemma del genere. Fin dai primi minuti si intuisce il desiderio di vestire i panni di un film politico, voglioso di affrontare la gravosa piaga dei cartelli e del traffico di umani che da anni devastano il Messico. Tuttavia, nonostante l’apparente centralità della questione, non viene mai trattata con la dovuta attenzione. Tutto questo ha suscitato una fortissima indignazione da parte della comunità messicana, la quale accusa una spettacolarizzazione della situazione di criminalità del paese. Per di più, la scelta di includere Selena Gomez nel cast appare del tutto sconsiderata: l’attrice risulta spaventosamente indisposta nel recitare in lingua spagnola, seppur lei stessa di origini messicane, e la sua prova attoriale se confrontata con quella delle sue colleghe è del tutto improponibile: espressioni innaturali, intonazioni ridicole che rendono fastidiosa ogni sequenza che la vede coinvolta. Per via di queste evidenti falle, la Gomez è stata accusata dalla comunità latinoamericana di “falsa latinidad”, di trarre dunque profitto dalle sue origini per monetizzare a discapito di un fittizio avvicinamento alle proprie radici (problema che ha visto coinvolta recentemente anche l’attrice e cantante Jennifer Lopez). Il risultato dei difetti sopracitati se sommati rendono la pellicola un mappazzone di situazioni consequenziali senza un reale filo conduttore. Nonostante ciò, il film diverte e intrattiene: non si parla infatti di un completo disastro, ma di un buon film con parecchi punti a sfavore, capace però di mantenere un ritmo sostenuto per l’interezza della propria durata. Le coreografie sono uno spettacolo per gli occhi e il resto del cast effettua notevolissime prove attoriali. Ricordo oltretutto che le analisi da me effettuate nel corso della visione e le conclusioni estrapolate sono frutto di un giudizio che si rifà a parametri tecnici coniugati a gusto personale, perciò ne consiglio caldamente la visione (preferibilmente in sala) e vi sprono a fabbricare il vostro personale giudizio.
Se non avete ancora recuperato il film e non volete rovinarvi la sorpresa, l’analisi senza spoiler si conclude qui. Potrete tornare a leggere ciò che ne segue quando vorrete.
Ci sono alcune ottime considerazioni da fare sulla Gascon e riguardo alla sua folle interpretazione. Nella ricerca della voce per Manitas del Monte, l’attrice sostiene di essersi ispirata ai timbri di Marlon Brando e di Sylvester Stallone. Il risultato? Un inquietante registro rauco, quasi sospirato, che trasmette in modo straordinario l’idea di un Manitas di cui avere paura. Lo sguardo dell’attrice comunica talvolta più delle sue stesse battute, evocando una sensazione di instabilità e rabbia esplosiva che da un momento all’altro potrebbe liberarsi dal corpo del personaggio, nonostante il suo arco di redenzione. Manitas emerge in Emilia nell’intensa scena chiave del litigio con la sua ormai ex moglie (la quale crede di avere a che fare con una cugina del suo presunto defunto marito), in cui confessa il desiderio di sposare e vivere con l’amante e conseguentemente di portar via i figli dal nido pensato da Emilia proprio per poter rimanere con loro. I figli, come la loro madre, sono ignari della reale identità della donna. Il tragico finale lascia l’amaro in bocca, e il destino dei personaggi colpisce profondamente: Emilia morirà proprio a causa della condotta criminale alla quale aveva voltato le spalle, per di più in modo atroce. Uno scherzo del destino che porterà con sé Jessi (la ex moglie interpretata per l’appunto dalla Gomez) e il suo amante, personaggio secondario la cui personalità si limita all’essere un prepotente violento. Jessi non è da meno: la sua caratterizzazione è tanto spessa quanto un foglio di carta.
I suoi unici attributi sono l’essere mantenuta dai guadagni delle attività mafiose del compagno, l’essere una pessima madre (del tutto assente), superficiale e puerile. Ma c’è un’altra donna che entrerà a far parte della vita di Emilia: Epifania (nome affatto casuale), che rappresenta una vera e propria rivelazione per Emilia, la scoperta di una vita all’insegna del puro amore. Peccato che anche il suo ruolo conti pochissimo tempo di screentime, il che rende quasi impossibile provare un reale interesse per lei. Forse, tuttavia, è proprio l’intenzione del regista: rappresentare più un simbolo che un individuo reale. E infine Zoe Saldaña e la sua Rita Mora Castro, che ci permette di seguire le vicende attraverso i suoi occhi. Poco da dire a riguardo, se non che la sua performance è risultata perfetta. Sostiene egregiamente recitazione,canto e ballo. Sarà impossibile per voi non amare alla follia il suo personaggio, la propria evoluzione e quel finale che la vede coronare in un certo senso il suo sogno di avere dei figli, ma a quale prezzo?
Per concludere, in “Emilia Perez” il tema della transizione pulsa come il cuore narrativo che lega insieme tutte le vicende, ben oltre la dimensione del cambio di sesso. Emilia compie una trasformazione fisica e spirituale, ma non è sola in questo processo. Rita, con il suo passaggio da avvocatessa disillusa a complice di un piano straordinario, intraprende un percorso di riscoperta del proprio scopo.
Perfino i personaggi secondari, come Jessi ed Epifania, si muovono attraverso fasi di cambiamento che, seppur meno esplicite, parlano di adattamento, perdita e nuovi inizi. In questo senso, la transizione diventa una lente attraverso cui leggere l’intera pellicola: non solo un cambiamento esteriore, ma una metamorfosi che investe identità, relazioni e visioni del mondo. La perdita delle figure genitoriali dei due bambini, figli di Manitas e Jessi, rappresenta una delle conseguenze più drammatiche dei cambiamenti che investono i personaggi. Questa vicenda si fa anche chiave di una critica sottile allo stile di vita in cui spesso si trovano coinvolti i figli di narcotrafficanti, sottolineandone le profonde ripercussioni emotive e sociali. E’ per questo che nonostante le criticità consiglio la visione della pellicola, che vi terrà incollati allo schermo, vi darà spunti di riflessione, vi condurrà attraverso un viaggio complesso e emozionante. “Emilia Perez” non è solo una narrazione di trasformazioni individuali, ma un invito a riflettere su come le identità possano mutare, a volte a fatica, sotto il peso di scelte esterne, di circostanze inevitabili, e di eventi che ribaltano la vita. Ogni personaggio, nel suo percorso di cambiamento, ci ricorda che la transizione, in qualsiasi sua forma, è un atto di coraggio, un segno di resilienza e, infine, di speranza.
Nonostante le sfumature positive che emergono durante il film, il finale si rivela essere una nota dolorosa e tragica, che lascia un vuoto inevitabile nel cuore dello spettatore. La realtà delle scelte, delle perdite e dei cambiamenti si fa tagliente, e il percorso di trasformazione dei protagonisti si conclude con un peso che non può essere ignorato. In un certo senso, è proprio questa triste conclusione a conferire un’autenticità crudele alla narrazione, dimostrando che non tutte le transizioni portano a un lieto fine, ma a volte al contrario, ci pongono di fronte a un dolore inevitabile, che è parte integrante del nostro essere. La pellicola, pur tra le sue difficoltà, resta un’opera potente e toccante, che, pur nella sua mestizia, non può non lasciare riflessioni profonde sulla condizione umana e sulle sue fragilità.
Andrea Grallinu