Spoleto7film: Maria (di Andrea Grallinu)

Jackie (2016), Spencer (2021), Maria (2024): la trilogia della donna di Larraín giunge a quella che appare essere la sua conclusione con quest’ultima pellicola, presentata all’81ª Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia.

Il film ripercorre gli ultimi giorni di Maria Callas, la leggendaria cantante greca, immortalata nella storia come una delle voci più straordinarie della lirica. Come da consuetudine, il regista cileno sceglie di sondare le fragilità più intime delle sue protagoniste, scavando nell’abisso della loro psiche e mettendo a nudo le loro debolezze. Questa cifra stilistica, già visibile nei precedenti film (nel caso di Spencer, con una Kristen Stewart sublime nei panni di Lady Diana, catapultata nell’occhio del ciclone, presa di mira anche dalla stessa famiglia reale inglese, suscitando una prepotente indignazione generale), ha generato reazioni contrastanti, spingendo pubblico e critica a confrontarsi con un ritratto emotivamente crudo e devastante.
Nel 1977, Maria Callas (interpretata da un’Angelina Jolie in una forma straordinaria) vive a Parigi, lontana dai riflettori che una volta l’avevano accecata. Sono trascorsi quattro anni dall’ultima volta che ha calcato i palcoscenici più prestigiosi, e ora la sua vita è segnata dall’abuso di farmaci e da una solitudine profonda e straziante. Le uniche presenze costanti nella sua esistenza sono Bruna, la domestica, e Ferruccio, il maggiordomo (interpretati magnificamente da Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher), che la circondano con un affetto sincero, offrendole un’illusoria quiete, come nel gioco di carte che diventa una parentesi di serenità.

La figura di un giovane giornalista immaginario, chiamato Mandrax (nome che richiama il farmaco che vediamo centralmente nel film), emerge come interlocutore della diva e pretesto narrativo per esplorare i lati più oscuri e nascosti della sua esistenza. Attraverso una serie di interviste, emergono ricordi che rivelano la sua vita ad Atene, l’amore tormentato per Onassis, i complicati legami con la sorella e il rapporto conflittuale con il pubblico e la stampa, ossessionati dal cercare uno scoop (il popolare mito di una sua precaria condizione fisica, che la stessa Callas adombrò come causa del suo allontanamento dal mondo dell’opera, viene più volte evocato). La sua psiche si deteriora, lentamente, nell’accettazione di una condizione medica tanto grave da precluderle per sempre la possibilità di cantare (in un momento in cui il pensiero di ritornare a calcare quei palcoscenici, vestire quegli abiti da diva, simbolo di un passato ormai perduto, riaffiora nei suoi pensieri, mentre assistiamo alla distruzione dei costumi all’inizio del film, rappresentazione del suo abbandono definitivo di ciò che fu). Una Callas che fatica a trovare il proprio posto nel mondo, ora che l’unica cosa che l’ha definita, la sua voce, le è stata sottratta.

Il conflitto identitario, straziato tra il suo io autentico e il personaggio pubblico che l’ha definita, si riflette negli specchi, nei riflessi frammentati del suo volto, negli sguardi che rivolge a sé stessa. Larraín cattura questa dicotomia con una cinepresa che invade gli spazi privati della protagonista, seguendola in ogni piccolo gesto quotidiano, dalla scena della colazione, in cui la sua voce, lontana dalla perfezione, si mescola allo sfrigolio della pentola di Bruna, alle passeggiate solitarie per una Parigi che a stento sembra riconoscerla, mentre si perde tra la folla francese che quasi pare non notarla nemmeno. Alcune inquadrature sembrano suggerire quel senso di piccolezza esistenziale (la telecamera si tiene a distanza, Maria appare quasi insignificante), come se il suo stesso corpo fosse ormai estraneo al mondo che un tempo l’aveva osannata. La fotografia, con il suo sapiente passaggio tra colori e bianco e nero, svolge un ruolo cruciale nella comprensione narrativa, accentuando i momenti più intensi e drammatici, sottolineando l’inesorabile declino della protagonista. Il culmine emotivo si raggiunge nell’ultimo grido, l’ultimo canto: una scena devastante in cui la Jolie, con straordinaria intensità, rende tangibile la fatica fisica e psicologica della cantante, attraverso contrazioni muscolari, nervi a fior di pelle, e una sofferenza che accompagna il suo addio alla musica, al suo stesso corpo, alla vita. È in questo completo abbandono che Maria trova, per la prima volta, una forma di controllo. Interessante oltretutto la parvenza dell’intonazione di un canto da parte dei cani della Callas nel vedere il corpo senza vita dell’amata padrona, producendo degli acuti paradossali all’incapacità della cantante di poter ormai raggiungere quell’estensione vocale.

Eppure, il film non riesce a convicere del tutto. Non convince per una sceneggiatura che, a tratti, risulta vaga e superficiale. La pellicola mantiene un’aura sensazionalistica per gran parte della sua durata, e le continue battute di black humor appesantiscono inutilmente la godibilità del film. Certo, Maria Callas era conosciuta anche per le sue risposte pungenti, ma Larrain sembra esagerare nel dar sfogo a questa ironia acida, facendo prevalere il gioco della parola sulla profondità dei sentimenti. Inoltre, la pellicola emana incessantemente il desiderio di essere riconosciuta per il suo valore artistico (in parole povere, Pablo cerca a tutti i costi di portare le sue opere, e le sue attrici, sulle vette delle premiazioni dell’Academy), il che diventa fastidioso a lungo andare. A discapito di un apprezzamento autentico per l’opera, vi è una particolare spettacolarizzazione della figura di Onassis, in cui il personaggio, pur essendo il bruto che la Callas definisce con affetto, viene rappresentato con una patina empatica che stenta a convincere, tanto quanto le profondità stagnanti di un lago. I comportamenti erronei e inequivocabili che il personaggio adotta vengono giustificati da una resa edulcorata di alcune questioni, mentre sarebbe necessario ricordare la superiorità con cui si comporta nei confronti della sua amata (e il viscido corteggiamento nei confronti di Jackie Kennedy, moglie del presidente J.F. Kennedy).

Le tre protagoniste della “Trilogia della Donna” sono unite dalla condizione di subordinazione a uno o più uomini nelle loro vite e carriere, poiché Larrain punta a criticare un sistema in cui l’uomo si erge come il bruto, un soggetto che schiaccia la donna in uno stato di inferiorità. Eppure, in questo film, la scrittura del personaggio sembra dedicata quasi esclusivamente a l’enfatizzazione della sua carica carismatica. La Jolie, purtroppo, viene sopraffatta dalla potenza di Haluk Bilginer, che ruba la scena, ergendosi a protagonista indiscusso di ogni sequenza in cui appare, un problema significativo per l’equilibrio narrativo del film. L’incontro con la sorella Yakinthi (in cinque minuti di screenplay la Golino sostiene un’interpretazione clamorosa) è a mio avviso uno dei momenti più toccanti della storia, eppure gli viene concesso un minutaggio talmente breve da renderlo effimero, quasi accessorio, nonostante venga trattato un punto focale della vita delle sorelle e il nocciolo della difficoltà della Callas nel poter staccarsi dal suo passato, il quale risiede nella sua struggente incapacità di liberarsi dalle ombre che ancora gravano sulla sua esistenza. Ci tengo oltretutto a dare alcune considerazioni riguardo la scelta della Jolie nel vestire i panni dell’indiscussa diva ateniese. Seppur una gran fetta di persone la definiscano la “performance della vita”, e seppur Angelina di fatto dimostri di saper tenere bene le redini della Callas, il carisma della cantante (percepibile anche semplicemente dagli scatti fotografici con una presenza che bucava l’obbiettivo) non risulta minimamente comparabile a quello portato in scena nella pellicola. Il risultato? Una Callas alcune volte non decisamente sottotono.
Nonostante ciò, tengo a ricordare che le criticità e i dubbi espressi sono frutto di un’opinione personale data dalla prima e unica visione da me effettuata. Non è mia intenzione influenzare il giudizio personale di nessuno, per tanto è importante trarre le proprie considerazioni a discrezione di ciò che si percepisce e ciò che si coglie. Per questo motivo, ricordo che “Maria” sarà disponibile alla Sala Pegasus fino a Mercoledì 14 Gennaio, accorrete numerosi a recuperare l’ultimo film Pablo Larrain e sostenete l’indelebile arte del cinema.
Andrea Grallinu

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