L’Arcivescovo: «Il “bene comune” richiede un impegno trasversale e condiviso, al di sopra degli interessi di parte, in favore della famiglia, dell’educazione, del lavoro e della sanità, prestando ascolto alle legittime aspirazioni degli abitanti, affinché in ogni territorio siano garantiti i servizi essenziali alla persona»
Alla tua supplice città fedel, propizio chinati, Ponzian, dal Ciel! Ancora una volta – sabato 14 gennaio 2023 – nell’antica Cattedrale di Spoleto è risuonato l’inno al giovane martire Ponziano, patrono della Città e dell’intera Archidiocesi. Il solenne pontificale delle 11.30 è stato presieduto dall’arcivescovo Renato Boccardo, concelebrato da tanti presbiteri e animato dalla corale diocesana. Il servizio all’altare è stato curato dai seminaristi e dai ministranti della Diocesi, coordinati dal cerimoniere don Pier Luigi Morlino. Molti i fedeli presenti e rappresentanti di Associazioni, così come le autorità: dalla presidente della Giunta regionale Donatella Tesei a quella della Provincia Stefania Proietti, dal prefetto di Perugia Armando Gradone al senatore Franco Zaffini, da Stefano Lisci rappresentante del sindaco di Spoleto Andrea Sisti (assente per motivi di salute, ndr) al sindaco di Norcia Nicola Alemanno, da diversi altri primi cittadini dei Comuni che ricadano nel territorio della Diocesi ad autorità militari. Era presente anche una delegazione della città pugliese di Vieste che ha S. Ponziano come compatrono.
Ponziano è come un “calco” di Gesù, ha detto nell’omelia mons. Boccardo: «Come Gesù, condannato quale sovversivo della religione; come Gesù, trascinato a morire fuori città; come Gesù sulla croce, capace di consegnare il suo spirito e di offrire il perdono ai persecutori. La sua vita e la sua morte ci parlano di coerenza, fedeltà, dedizione, generosità; ci ripropongono una “passione” capace di motivare gesti eroici e pienamente liberi, quelli che spesso sembrano mancare nella nostra società, tendente sempre più alla superficialità e all’indifferenza».
Una indifferenza che appare oggi come prodotto dell’“ateismo del cuore”. «L’ateismo del cuore – ha detto il presidente della Conferenza episcopale umbra – inizia come vergogna della compassione, che ci fa sembrare deboli e irrazionali; si concentra nella cura di sè, accettando l’avvilimento dei propri simili come una fatalità dell’evoluzione che seleziona i vincenti; si armonizza con l’industria del godimento, premiando l’insensibilità per la privazione dell’altro come ragionevole calcolo delle risorse. L’ateismo del cuore non riconosce alcun Dio della giustizia al quale rispondere, né alcun Dio dell’amore al quale corrispondere; ingrassa il nichilismo e divide gli umani; produce effetti di degrado civile che possono assumere forme impressionanti di ignoranza e aggressività (una rapida scorsa ai commenti e ai blog che circolano in rete offre un diluvio di evidenze). Di fronte a questo clima preoccupante, gli uomini e le donne di buona volontà sono chiamati a dare vita ad una autentica “resistenza”, a trovare un punto di alleanza per credenti e non credenti, prima che esso procuri assuefazione per i figli della generazione a venire».
Sono necessarie risorse spirituali per tenere insieme un tessuto sociale lacerato. «Mentre abbiamo ottenuto risultati straordinari nel “foro esterno” della civiltà – tecnica, economia, scienza -, nel “foro interno” – ha detto il Presule – siamo regrediti di secoli. Abbiamo smarrito la dimensione spirituale dell’esistenza. Ma senza spiritualità la depressione diventa pandemia globale, le persone non riescono a cooperare, le imprese a produrre, la democrazia a funzionare. È sempre più urgente ricostituire un nuovo capitale spirituale come “casa” di tutti i capitali di una società: senza di esso tutti gli altri vagano nomadi, esposti ad ogni pericolo. Sono necessarie risorse spirituali per tenere insieme un tessuto sociale lacerato e nutrire una visione di futuro. Riascoltiamo don Lorenzo Milani: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia”.
Prestare ascolto alle legittime aspirazioni degli abitanti, affinché in ogni territorio siano garantiti i servizi essenziali alla persona. «Il “bene comune” richiede un impegno trasversale e condiviso, al di sopra degli interessi di parte, in favore della famiglia, dell’educazione, del lavoro e della sanità, prestando ascolto alle legittime aspirazioni degli abitanti, affinché in ogni territorio siano garantiti i servizi essenziali alla persona. Dobbiamo custodire e alimentare una aspirazione al bello e al bene che – forse – aveva contraddistinto altre epoche storiche. Il desiderio – che deve essere tenuto distinto sia dal bisogno che dalla velleità – è ciò che ha caratterizzato lo sviluppo della specie umana e porta fuori, all’aperto, conduce ad intrecciare relazioni, a costruire mondi. La parola del Vangelo di Matteo: «là dove è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore” (6, 21), significa anche questo: occorre esercitarsi a discernere i tesori che vogliamo conservare e quelli che vogliamo lasciar cadere, perché destino dell’uomo è che il suo cuore desideri, esplori, edifichi. C’è bisogno di attenzione, di approfondimento continuo, di un cercare e saper riconoscere il bene, di farlo durare e dargli spazio. È questo modo di procedere che può permettere di avvedersi di molte buone pratiche, di fecondi scambi, dell’importanza della diversità biologica, culturale, umana, della presenza di menti e cuori disponibili ad un impegno serio, lucido, generoso. All’intercessione immancabile del nostro antico Patrono che non ci ha mai abbandonati, dopo il tempo difficile della pandemia che sembra aver addomesticato o forse anche spento la capacità di sognare e di impegnarsi, affidiamo il desiderio di ritrovare il gusto di guardare in avanti e la voglia di avere un futuro, mentre chiediamo l’energia necessaria a dar vita ad una società più vivace, più pronta a capire il senso ultimo delle cose, in grado di rispettare e di esaltare i veri valori dell’esistenza».
“C’è bisogno di attenzione, di approfondimento continuo, di un cercare e saper riconoscere il bene, di farlo durare e dargli spazio. ” Trovo singolare e mi fa piacere, io che sono comunista, che il vescovo faccia sua una frase tratta da un mio libro “Le città invisibili”‘ senza citare la fonte anche se modificando leggermente il testo. Così facevo dire a Marco Polo a colloquio col Gran Kan: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”