In un articolo pubblicato su The Wall Street Journal qualche giorno fa, il giornalista Jon Hilsenrath riporta i risultati di uno studio condotto su un’iniziativa del governo tedesco tra il 1966 e il 1967: “il governo abbreviò l’anno scolastico […]; quelle lezioni perse hanno ridotto del 5% circa i redditi degli studenti coinvolti”.
Partendo da questa considerazione l’autore mette in guardia sui rischi di una didattica a distanza che spesso garantisce apprendimento solo in percentuale, ricordando che il tempo di studio perso potrebbe provocare danni permanenti non solo alle prospettive di lungo periodo di noi ragazzi, ma in generale all’economia.
Secondo gli economisti ci troviamo di fronte a una delle più grandi isteresi (cambiamento permanente provocato da sconvolgimenti di ampia portata) della nostra storia, ma non serve un’esperienza decennale per rendersi conto degli effetti più diretti sui giovani di questa sindemia.
Ho una sorella di tredici anni che frequenta la terza media con il massimo dei voti. Sentirla dire che non ha più voglia di studiare e che, se potesse rinuncerebbe alla carriera scolastica, mi riempie d’angoscia, anche e soprattutto perché penso a quanti suoi coetanei, in un rapporto magari più difficile con l’istruzione, compiano lo stesso ragionamento e a quanti porteranno a termine il proposito.
Studio Lettere moderne all’università di Firenze e mi accorgo che l’impatto della DAD sui laureandi, sebbene appaia meno catastrofico rispetto a quello che ha sui più giovani, è comunque significativo e colpisce da più fronti. Per mia esperienza posso riassumere in due punti cruciali gli esiti di questo nuovo approccio all’apprendimento. In primo luogo c’è il problema della fatica: in una società che, complice il progresso, ha minimizzato la fatica in ogni settore della vita, la scuola restava fino a poco tempo fa uno dei luoghi in cui far fatica era indispensabile.
Con l’avvento della DAD non cambia la richiesta di fatica per apprendere, che anzi è aumentata, ma il rapporto tra questa e gli studenti. I fattori che determinano il cambiamento sono molteplici: restare a casa propria, spesso nella stessa stanza in cui fino a pochi minuti prima si dormiva; avere accesso alle registrazioni degli insegnanti, per cui pare non necessario seguire la lezione in sincronia; poter mettere in pausa le spiegazioni, così da fare intervalli più o meno lunghi per bisogni più o meno inderogabili.
Tutti questi fattori concorrono a una vera e propria sottovalutazione dei contenuti, costruendo un’idea di didattica a distanza realmente “distante” che sortisce effetti opposti a quelli che dovrebbe: non c’è bisogno di fare alcuna fatica per seguire una lezione, dunque ci si assuefà al semplice, dunque si è sempre più convinti che la fatica non sia necessaria. Questa direzione non può che accelerare un processo già in atto di declino intellettuale generale, da qui la mia preoccupazione.
In secondo luogo c’è l’enorme problema della socialità. La scuola e l’università in presenza obbligano ai rapporti sociali, trasformano la tendenza all’isolamento di alcuni in volontà di emergere, stimolano, scuotono, colpiscono, eccitano. La DAD annienta tutto questo e lo riduce a inerzia e attesa (non si sa bene di cosa); questo ha effetti su tutto quello che riguarda la vita dei giovani: si sa, inerzia chiama inerzia, che chiama noia che chiama inerzia e, se non si hanno gli strumenti per raddrizzare la rotta, ogni ambito del quotidiano diventa un terreno arido, su cui non possono crescere obiettivi.
In questo panorama desolato non può rimanere che la speranza della reversibilità, anche se la ferita è profonda.
Iacopo Mancini
Davvero bravo jacopo come sempre. Un ragazzo con la testa sulle spalle e le idee chiare. Grande avanti cosi. ❤️
Complimenti un articolo costruttivo e reale ! Complimenti davvero !!!!!!